Criptovalute e blockchain, nascita, funzionamento ed evoluzione

Ancora fresca è la diffusione dell’analisi di Jim Reid (credit strategist di Deutsche Bank), intitolata The Start of the End of Fiat Money, nella quale egli sostiene che le valute fiat, cioè quelle stampate dalle varie banche centrali degli Stati, hanno ormai i giorni contati.

Forse è ancora presto per un’affermazione del genere, ma di certo molti avranno sentito parlare di criptovalute o, ancor prima, della creazione del Bitcoin, materia su cui i pareri fioccano discordanti: alcune autorità del mondo finanziario internazionale hanno assunto posizioni decisamente contrarie a questo fenomeno, paragonandolo alla “bolla dei tulipani” (la bolla speculativa sui bulbi di questi fiori, scoppiata nell’Olanda del Seicento), oppure stigmatizzandolo come una frode o, ancora, assimilandolo al famigerato “schema Ponzi” (ovvero una dubbia promessa di profitti fantasmagorici); altri, invece, vi intravedono del potenziale e una concreta possibilità di cavalcare e, nel migliore dei casi, studiare l’onda.

La globalizzazione, in qualche modo, ha messo in una comunicazione costantemente crescente diverse realtà microcosmiche economiche, politiche e di altra natura, garantendo la connessione e l’integrazione di piccole realtà unicellulari in sistemi più complessi. Tale “assorbimento” ha creato sinergie sempre più ampie ma vulnerabilità più estese.
L’analisi di Jim Reid lancia un allarme sul sistema globale di tenuta finanziaria. Nel suo report, egli fotografa pregi e difetti di ciò che è stato quel tipo di politica finanziaria che ci è usuale e che ha continuato a stampare moneta e che, se da un lato ha aiutato a tenere bassi gli interessi al fine di riattivare l’economia, dall’altro potrebbe subire un contropiede se si verificasse una crisi finanziaria in un mondo che in realtà è impreparato a fronteggiare determinati scenari. Oltre a ripercorrere il passato e le sue intrinseche implicazioni sul divenire del futuro, la relazione di Reid esamina anche l’ambito decentralizzato e in forte crescita delle criptomonete e il loro possibile accreditamento.

In quest’ottica ci troviamo, con tutta probabilità, all’inizio di una trasformazione che, se non accompagnata da strategie congiunte e previdenti, potrebbe creare un effetto deflagrativo dell’economia nel senso più ampio; ma credo altresì che siamo ancora in tempo per mettere in campo dei paracaduti capaci di trasformare ciò che parrebbe essere un lancio nel vuoto in una planata sicura sul terreno del nuovo mondo economico.
La cartamoneta è al tramonto, oggi paragonabile alle lampade a olio e al trasporto con i cavalli. Il mondo futuro, che piaccia o no, trasferirà denaro esclusivamente attraverso sistemi digitali decentralizzati, sia che si tratti del pagamento di un caffè, sia che si
negozi un trasferimento o un’acquisizione. In questa nuova dimensione l’Euro, il Dollaro e tutte le altre valute, come noi le conosciamo, non saranno più un’entità fisica ma un’entità virtuale, dunque né più né meno di una criptomoneta.

Quando nasce la criptomoneta e come funziona la blockchain technology?

Introdotte nel 2008, dopo la crisi finanziaria mondiale, da Satoshi Nakamoto – del quale ancora non si conosce la vera identità –, le criptovalute nascono con la comparsa del Bitcoin.
Era il 5 ottobre 2009 quando sul mercato venne reso noto il primo tasso di cambio del Bitcoin rispetto al Dollaro. Anche se le criptomonete, in sostanza, non comunicano con le valute fiat, rimanendo perciò a tutt’oggi legate a un mondo parallelo, sono interscambiabili tramite siti di exchange. Per la storia, nel 2009 con 1 dollaro si comprava 1,309.03 bitcoin.
Per capire quali siano stati i fattori che hanno portato a una crescita esponenziale come quella cui abbiamo assistito in questi anni bisogna analizzare la tecnologia celata dietro le quinte del Bitcoin, e in genere di tutte le criptovalute, e che porta il nome di blockchain technology.
La blockchain technology è un protocollo di comunicazione identificato da una tecnologia basata sulla logica del database “distribuito”. Le informazioni vengono inserite in un database che distribuisce le informazioni su più computer/server collegati tra loro, chiamati “nodi”. Semplicemente, il segreto risiede nella capacità di gestire e creare un grande database strutturato in blocchi (come evidenziato dal termine block), ovverosia maglie di rete, destinati a rimanere concatenati tra loro (chain).

A seconda delle diverse criptovalute, la rispettiva blockchain si compone di blocchi di diverse dimensioni, crittografati con i più vari sistemi e con funzionalità differenti. Ma tutte le blockchains hanno in comune la medesima struttura: un nuovo blocco è il risultato della somma delle transazioni precedenti; inoltre offre la possibilità di registrare nuove transazioni e verificare quelle già effettuate. La totalità dei blocchi, quindi, costituisce un database di informazioni chiamato ledger (o “libro mastro”), motivo per cui la blockchain technology è detta anche DLT (distributed ledger technology).
In questo modo è stata eliminata le necessità di un soggetto terzo, centrale e garante delle transazioni, generalmente identificabile nelle banche o negli Stati, dando ai partecipanti stessi della blockchain la capacità di fiducia in soggetti estranei: nessuno ha la possibilità di prevalere e il processo decisionale passa rigorosamente attraverso la costruzione del consenso.
Una volta compresi i fondamenti della tecnologia sottostante alla criptovaluta, poi, nel concreto, il processo di funzionamento, il trasferimento e le modalità di possesso della nuova valuta risulteranno molto più semplici di quanto ci si possa immaginare.

Nella pratica, come funzionano le criptovalute e quali accorgimenti suggerisce nel caso volessimo procedere all’acquisto?

Per quanto possa sembrare complesso il codice sorgente per il funzionamento delle criptovalute, i software di gestione dedicati ne semplificano in maniera sostanziale l’utilizzo. Nel momento in cui si vuole comprare il primo “coin” basterà scaricare un “Wallet” digitale che permetterà di acquisire una “chiave privata” per accedere alle informazioni contenute all’interno della blockchain. La chiave privata è composta da una sequenza di lettere e numeri, grazie alla quale è possibile creare una “chiave pubblica”, il nostro address, per ricevere e inviare valuta. Importante è sapere che è possibile creare infinite chiavi pubbliche a partire dalla chiave privata, ma dalla chiave pubblica è impossibile risalire alla chiava privata. Per spiegarci meglio, facendo un paragone con le banche conosciute oggi, la chiave privata corrisponde alla chiave personale di accesso all’online banking, mentre la chiave pubblica corrisponde all’IBAN. A differenza del sistema swift per il trasferimento di denaro, che è privato e gestito dalle banche, il sistema basato sulla blockchain è completamento pubblico e perciò, se si conosce la chiave pubblica, si può risalire a tutti i trasferimenti effettuati da un certo conto e l’ammontare stesso di quel conto: è questa la ragione per cui i digital Wallet creano diverse chiavi pubbliche a ogni occasione.

Essendo il sistema della blockchain “distribuito”, come abbiamo già detto, possedere una chiave privata ci permette di accedere al nostro Wallet ovunque, semplicemente tramite una connessione Internet, ma è possibile altresì trasferire i nostri “coin” consegnando la chiave privata a un soggetto terzo, sotto forma cartacea.
Il continuo aumentare di interesse e valore ha fatto crescere di conseguenza l’interesse di acquisto, ed è per questo che un numero sempre maggiore di sistemi permette all’utente inesperto di acquistare in maniera automatica, semplicemente tramite bonifico o carta di credito. In questo caso, però, non saremo noi a possedere la chiave privata, che sarà invece in mano alla nostra banca o al sito di exchange. Poiché questo sistema, in assenza di un controllo da parte di enti statali, può risultare molto rischioso, è consigliabile utilizzare modalità che assicurino il controllo personale della chiava privata, il che significa non essere estranei alla blockchain stessa.
Resta per molti un mistero il fatto che un’idea, trasportata nel Web, sia così resiliente e investa l’interesse non solo della comunità finanziaria nella sua globalità, ma anche dei singoli investitori. Ma non è questa la sede per un’analisi etico-politica sulle criptovalute o per commentare le valutazioni negative pronunciate in proposito lo scorso settembre da Jamie Dimon, chairman e CEO di JPMorgan Chase. Qui è importante capire perché le criptovalute siano così volatili e il loro prezzo continui ad aumentare.

Come spiega la volatilità e crescita esponenziale dei prezzi delle criptovalute?

La ragione della crescita esponenziale delle criptovalute è relativamente semplice: esse hanno perlopiù una distribuzione limitata, cosa che permette di ovviare al problema dell’inflazione ma che, d’altra parte, crea solamente deflazione. Essendo autoregolato dalla tecnologia stessa, l’andamento del prezzo è dettato puramente dalle regole del mercato, secondo il principio di domanda e offerta.
Ora, dato che il prezzo del mercato è il risultato dell’incontro tra domanda e offerta, niente ha valore intrinseco. Forse le cose più preziose di cui noi disponiamo sono aria e acqua, ma la loro distribuzione non ne accredita alcun valore. L’oro, che potenzialmente ha un valore infinitesimale rispetto a quei beni primari, ha invece un suo valore di scambio sul mercato. E questo vale per il Dollaro, per le azioni, per i derivati ecc. Ad oggi, quel valore di interscambio planetario finanziario è detenuto da poteri politici e da poteri economici che, nell’ultimo secolo, si sono andati strutturando a partire dalla rivoluzione industriale e con lo sviluppo del capitalismo, un fattore da tenere ben presente come elemento di scarto rispetto alle nuove prospettive.
In questo quadro generale, lacerato tra passato, presente e futuro, il Bitcoin e tutte le altre criptovalute sono nulla perché inconsistenti, non valgono nulla e sono inesistenti, sono una semplice “idea”. Ma il prezzo sale, e l’interesse aumenta. Quindi sembra esserci qualcosa di più. Potremmo allora spiegare il Bitcoin come il risultato della sharing economy e della sua rete di scambio e condivisione. Tutte le maglie condivise della blockchain creano la credibilità del sistema e quindi il valore. Il valore non deve essere ricercato nel valore intrinseco del coin stesso: è la sua portanza la vera forza. Possiamo vedere nella comparsa
delle neonate “valute” decentralizzate il primo passo verso l’economia a costo marginale zero, così come sostenuta dall’economista Jeremy Rifkin.

L’economista statunitense, infatti, sostiene che a livello globale si sta instaurando un nuovo sistema economico. Tramite l’Internet delle cose (Internet of things) si va progressivamente affermando il “Commons collaborativo”, e cioè un nuovo paradigma economico fondato su comunità sempre più spinte sul versante della condivisione di beni e di servizi, una terza rivoluzione industriale i cui effetti soppianteranno quelli del capitalismo e del socialismo novecenteschi.
Il Commons collaborativo potrebbe essere all’origine di una vita economica del tutto inedita, potrebbe essere capace di dare una risposta a questioni come la riduzione delle disparità di reddito e la democratizzazione dell’economia globale, al fine di creare una società ecologicamente più sostenibile, nel senso più lato. Internet, attraverso la peculiarità della sua struttura, sta già distribuendo il potere tra i singoli annichilendo la centralizzazione nelle mani di pochi, con l’effetto di spingere la produttività fino al punto in cui il costo marginale di beni e servizi sarà quasi azzerato.
Queste sono solo supposizioni. Per adesso è chiaro che manca una visione strutturata del potenziale delle criptovalute e che il pensiero più comune sia quello di speculare, investendo e comprando Bitcoin e altre criptovalute. È necessario, di contro, cominciare a immaginare il futuro attraverso lo studio e l’analisi dei processi di questo nuovo fenomeno e della tecnologia sottostante, e non su basi di interessi speculativi. D’altronde le banche stesse stanno prendendo in considerazione la possibilità di introdurre una propria criptovaluta (si pensi, per esempio, a ciò che sta facendo la Russia con il criptorublo), ma questo processo
si sta avviando senza capire che, affinché questo nuovo tipo di valuta possa avere successo, deve essere decentralizzata. E tutto suggerisce che sia ancora prematuro che le banche ritraggano il loro “zampino” dal controllo dell’economia.

Contributo di Giovanni Perani, Blockchain and Cryptocurrencies Expert at Carnelutti Law Firm, Singapore Management University

In quale misura le criptovalute possono essere impiegate per il riciclaggio di denaro di provenienza illecita o il finanziamento del terrorismo?

Il tema del rapporto tra criptovalute, riciclaggio di denaro di provenienza illecita e finanziamento del terrorismo è fonte di grande preoccupazione a livello internazionale, talvolta non supportata da un’approfondita conoscenza dei meccanismi di funzionamento di tali strumenti e delle caratteristiche degli attori coinvolti (utenti, miners, software e custodial wallet providers, piattaforme di scambio). Collocato nel più ampio contesto della discussione sulle applicazioni e sulle evoluzioni della tecnologia finanziaria e della tecnologia blockchain, il timore che le valute virtuali possano rappresentare interessanti opportunità per soggetti coinvolti in attività criminali e terroristiche stanno portando governi ed istituzioni ad introdurre maggiori controlli, limitazioni e persino divieti di scambio.

È innanzitutto importante sottolineare la distinzione tra le cd. “valute virtuali non convertibili” (i.e. spendibili soltanto entro la comunità virtuale che le accetta), le cd. “valute virtuali a convertibilità limitata” (che si possono acquistare con moneta tradizionale ma non possono essere riconvertite in moneta avente corso legale) e infine le cd. “valute virtuali pienamente convertibili” (che, seppure connotate da un tasso di cambio caratterizzato da repentine e sensibili variazioni, si possono acquistare e rivendere in cambio di moneta tradizionale). Sono le valute virtuali convertibili, infatti, ad essere considerate vulnerabili ad abusi a fini di riciclaggio e finanziamento del terrorismo, come ampiamente illustrato da Autorità internazionali (Gruppo d’Azione Finanziaria Internazionale), europee (Europol, Commissione europea, Autorità Bancaria Europea e Banca Centrale Europea) e nazionali (Banca d’Italia, Unità di Informazione Finanziaria, Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie).

Tali criptovalute, infatti, pur potendo essere utilizzate per pagamenti transfrontalieri, trasferimenti e raccolte di fondi, sono caratterizzate, specialmente se di natura decentralizzata, da un rischioso profilo di anonimato – nella forma di una non necessaria associazione ad identità del mondo reale – e da una quasi inesistente attività di verifica, monitoraggio e sorveglianza. Ciò origina soprattutto dalla complessità strutturale delle entità coinvolte, che rende ardue le indagini e la supervisione, nonché l’identificazione della responsabilità per la compliance antiriciclaggio. Allo stato non vi è, inoltre, un software in grado di identificare modelli di transazione anomala o sospetta con ad oggetto valute virtuali.

In relazione alle valute come Bitcoin, però, è importante ricordare che il concetto di anonimato che le interessa si basa sull’utilizzo di pseudonimi, rendendo un’eventuale equiparazione con il denaro contante non del tutto calzante. Nel momento in cui avviene una transazione, ovvero uno spostamento da un indirizzo ad un altro, un registro pubblico decentralizzato tiene registrazione di tale trasferimento. L’utilizzo di pseudonimi garantisce soltanto la riservatezza dei dati personali, mentre la blockchain lascia traccia eterna di tutti i trasferimenti. Tecniche di digital forensics e di blockchain intelligence consentono di procedere ad identificazioni e raggruppamenti degli indirizzi relativi ai portafogli digitali (cd. clustering), nonché di tentare di ricostruire il relativo traffico. La complessità di funzionamento di questi strumenti, d’altro canto, rende molto difficile individuare dove porre i presidi al fine di prevenire e contrastare un loro abuso a fini illeciti.

Come è noto la scorsa estate la normativa italiana antiriciclaggio è stata oggetto di un’importante riforma ad opera del D. Lgs. 90/2017, attuativo nel nostro ordinamento giuridico della Direttiva europea 849/2015, la cd. “IV Direttiva Antiriciclaggio”. Le disposizioni in esso contenute sono in vigore dal 4 luglio 2017 e hanno apportato consistenti modifiche al D. Lgs. 231/2007 e ad altri atti normativi. Con riferimento alle valute virtuali il D. Lgs. 90/2017 non si limita a recepire quanto previsto dalla IV Direttiva Antiriciclaggio, ma compie un primo importante passo verso l’allineamento con le considerazioni contenute nella proposta di modifica della stessa (la cd. “V Direttiva”) per quanto riguarda il tema della prevenzione dei rischi di finanziamento del terrorismo legati all’utilizzo di valute virtuali.

Come è già stato affermato da vari esperti del settore, la scelta legislativa è andata nella direzione di anticipare quanto discusso in sede europea, circoscrivendo però il raggio di azione ad alcuni particolari attori sulla scena delle criptovalute. L’ambito soggettivo dei profili innovativi si riferisce, infatti, ai cd. “cambiavalute virtuali” o “exchanger” (fatti rientrare nella categoria degli “operatori non finanziari” ai sensi del Decreto), in considerazione della prossimità degli stessi al mondo finanziario tradizionale, quello delle monete aventi corso legale (i.e. potrebbero consentire al criminale il cd. cash-out). Non vengono prese in considerazione come destinatarie delle disposizioni antiriciclaggio, per il momento, le figure dei cd. “prestatori di servizi di portafoglio digitale” (o “custodial wallet”) e le piattaforme di trading (in cui gli acquirenti e i venditori di valute virtuali possono acquistare e vendere direttamente fra di loro).

L’art. 8 del D. Lgs. 90/2017 ha inoltre introdotto modifiche in tema di prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale (sono inclusi in questa definizione, oltre agli “exchanger”, anche i fornitori di servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio e alla conservazione di valute virtuali), emendando il D. Lgs. 141/2010 e il D. Lgs. 385/1993 (il cd. “Testo Unico Bancario”). Questi soggetti vengono ora fatti rientrare, forse con un’insufficiente attenzione alla loro eterogeneità e concreta operatività, nell’ambito di applicazione delle norme in materia di attività di cambiavalute. Si stabilisce, in particolare, la loro iscrizione in una sezione speciale del registro tenuto dall’OAM e un obbligo di comunicazione dell’operatività nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, a cui il legislatore del 2017 rimanda l’individuazione delle relative tempistiche e modalità.

Il problema di disciplinare giuridicamente le criptovalute è destinato a scontrarsi con la complessità di un mondo caratterizzato da regole proprie, richiedendo di adottare prospettive ed approcci flessibili. Mentre l’azione legislativa italiana si sta al momento concentrando sui cd. “cambiavalute virtuali”, altre giurisdizioni, come quella olandese, hanno iniziato a confrontarsi con il problema del riciclaggio di valute virtuali e con il concetto di “Bitcoin mixing/tumbling”. Tale meccanismo si basa su un servizio anonimo di riciclaggio offerto (a pagamento) sul dark web che consiste nel mischiare Bitcoin di provenienza diversa (i.e. di proprietà di clienti diversi) con la finalità di confondere le tracce delle transazioni (illecite) precedenti. Al termine della procedura il cliente riceve Bitcoin totalmente “puliti” e nuovi rispetto a quelli conferiti e vengono adottate strategie al fine di non rendere ricostruibile la correlazione dei Bitcoin “in uscita” con quelli immessi nel sistema.

Alcune giurisdizioni hanno considerato l’istituzione di una sorta di presunzione legale di riciclaggio per coloro che fanno uso di questo tipo di servizi, scontrandosi però con le tradizionali definizioni di riciclaggio contenute nei più importanti atti normativi internazionali ed europei, nonché con le caratteristiche delle valute virtuali più recenti che utilizzano una tecnologia che già di per sé ingloba una funzione di mixing (è il caso ad es. di Monero).

In prospettiva evolutiva si può invece notare come sia il profilo dell’anonimato ad essere al centro dell’attenzione, portando a tentativi di sviluppo di valute virtuali compatibili con i requisiti antiriciclaggio, come AML BitCoin. Tale criptovaluta avrebbe la capacità di identificazione biometrica inclusa nel suo codice, collocandosi nella più vasta ottica di integrare le valute virtuali con le istituzioni finanziarie tradizionali.

In conclusione risulta importante stabilire quale sia il giusto livello di intervento legislativo relativamente alle criptovalute, nonché la linea di demarcazione tra una regolamentazione in prospettiva di tutela e iniziative che si tramutino invece in concreto in un divieto di utilizzare tali strumenti. Le azioni di prevenzione e contrasto degli abusi a fini illeciti devono prendere atto del repentino susseguirsi di schemi innovativi di valute virtuali e dell’emergere di nuovi schemi di riciclaggio.

Contributo di Nadia Pocher, Trainee Lawyer at Studio Legale Fisicaro