Perché il collega ha lo stipendio più alto del mio? L’esperto spiega quando è legittimo e quando no

La Cassazione chiarisce: avere mansioni identiche a un collega non garantisce automaticamente lo stesso stipendio

In molte aziende italiane, capita spesso di scoprire che un collega che svolge le stesse mansioni percepisce uno stipendio maggiore. È una situazione che può generare frustrazione, ma non sempre questo divario retributivo è illegittimo o configurabile come discriminazione. La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17008 del 2025, ha chiarito quali criteri devono essere rispettati dai datori di lavoro nella definizione degli stipendi.

Il caso esaminato riguarda un dipendente che chiedeva il riconoscimento di uno stipendio più alto e di una qualifica superiore, lamentando un trattamento economico inferiore rispetto a colleghi con mansioni analoghe. Tribunale e Corte d’Appello hanno respinto la richiesta e la Cassazione ha confermato la decisione, spiegando che il semplice svolgimento delle stesse mansioni non conferisce automaticamente diritto a una retribuzione identica.

La vicenda solleva dunque un tema spesso frainteso: il principio di parità salariale non significa che due lavoratori con mansioni identiche debbano percepire obbligatoriamente lo stesso stipendio. La legge italiana tutela la proporzionalità tra lavoro svolto e compenso, ma lascia spazio al datore di lavoro per modulare le retribuzioni secondo criteri legittimi.

Quando la differenza salariale è legittima

Secondo la Cassazione, la differenza tra stipendi può essere giustificata da fattori oggettivi e non discriminatori. Tra questi rientrano: l’anzianità, l’esperienza professionale, il livello di responsabilità, l’orario di lavoro, la presenza di premi di risultato o la qualifica contrattuale assegnata. È fondamentale che il legame tra mansioni effettivamente svolte e retribuzione sia chiaro e coerente: un datore di lavoro non può assegnare stipendi a caso, ma può modulare la paga in base a criteri concreti e documentabili.

differenze salariali
Le differenze salariali sono legittime se basate su criteri oggettivi e prive di discriminazione – diritto

Al contrario, una differenza diventa illegittima se fondata su discriminazioni vietate dalla legge: genere, razza, religione, opinioni politiche, età o iscrizione sindacale. In tali casi, il lavoratore può fare ricorso e chiedere la revisione della retribuzione. La Cassazione ha sottolineato che, nel caso specifico, il dipendente non aveva dimostrato che la differenza fosse discriminatoria né aveva chiarito le mansioni concrete svolte, rendendo infondata la sua richiesta di aumento o cambio di qualifica.

Negli ultimi anni, anche la normativa europea ha rafforzato le garanzie in materia di pari retribuzione e trasparenza salariale. La direttiva UE 2023/970, recepita in Italia nel 2025, richiede alle aziende di fornire informazioni sulle retribuzioni e ai lavoratori di poter accedere ai dati medi per categoria e livello. L’obiettivo è prevenire disparità basate sul genere o su altri stati protetti. Tuttavia, la direttiva non obbliga i datori di lavoro a garantire lo stesso stipendio a tutti coloro che svolgono mansioni identiche, ma interviene solo quando esistono disparità discriminatorie.

In sostanza, due dipendenti con lo stesso lavoro possono avere retribuzioni diverse, purché le differenze siano motivate da criteri oggettivi e legittimi. La legge tutela quindi sia i lavoratori che il principio di equità, sia la libertà del datore di lavoro di organizzare i livelli retributivi secondo merito, responsabilità e altre condizioni legittime.

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