Stipendio troppo basso? Ora puoi fartelo aumentare: l’esperto spiega come fare subito

Se il tuo stipendio è troppo basso sappi che puoi fartelo aumentare. Tutto quello che devi sapere al riguardo.

La Corte di Cassazione ha recentemente emesso due sentenze di fondamentale importanza (n. 28230/2023 e n. 27711/2023) che segnano una svolta significativa nella tutela dei diritti dei lavoratori in Italia. Con tali decisioni, i giudici attribuiscono ai magistrati il potere di disapplicare i contratti collettivi nazionali qualora la retribuzione prevista risulti insufficiente a garantire una vita dignitosa, in ossequio ai principi sanciti dall’articolo 36 della Costituzione.

Questo intervento rappresenta una risposta concreta al fenomeno sempre più diffuso del lavoro povero nel nostro Paese, ridefinendo il concetto di “giusta retribuzione” e aprendo nuovi scenari nel sistema delle relazioni industriali.

Stipendio troppo basso? Ora puoi fartelo aumentare

Fino a poco tempo fa, la giurisprudenza italiana aveva sempre considerato i contratti collettivi nazionali come il parametro inderogabile per stabilire una retribuzione “giusta” e sufficiente ai sensi dell’articolo 36 Cost. In pratica, se il lavoratore percepiva una paga conforme al CCNL applicato, si dava per scontato che il compenso fosse adeguato e capace di assicurare a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

Stipendio basso: come arrotondare
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Le sentenze della Cassazione hanno però demolito questo automatismo, qualificando la conformità al CCNL come una presunzione relativa e quindi contestabile. Il magistrato, infatti, è ora chiamato a un’analisi più approfondita e sostanziale: non è più sufficiente applicare meccanicamente il contratto collettivo, ma occorre verificare se la retribuzione rispetti effettivamente i requisiti costituzionali di dignità.

Qualora il lavoratore dimostri che il proprio stipendio, anche se conforme al CCNL, non gli consenta di vivere dignitosamente, il giudice può disapplicare quel contratto e imporre una retribuzione più elevata. La sentenza n. 27711/2023 sottolinea in modo chiaro che “nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione”.

Questo conferisce ai magistrati un potere straordinario, superiore a qualsiasi accordo collettivo privato, che apre la strada a un’effettiva tutela contro il lavoro povero. Le motivazioni delle sentenze della Cassazione dipingono un quadro estremamente critico del mercato del lavoro in Italia. Il fenomeno del lavoro povero, ossia la condizione di chi lavora ma vive in povertà, è descritto come allarmante e in crescita.

Diverse cause si intrecciano: la frammentazione sindacale ha generato una miriade di contratti collettivi, spesso sottoscritti da organizzazioni con rappresentatività limitata o discutibile; si assiste inoltre alla proliferazione dei cosiddetti “contratti pirata”, accordi stipulati unicamente per abbassare artificialmente i costi del lavoro senza reali tutele per i lavoratori; infine, il CNEL ha censito ben 946 contratti collettivi nazionali solo nel settore privato, creando una vera e propria giungla normativa.

A questo quadro si somma l’effetto devastante dell’inflazione degli ultimi anni, che ha eroso il potere d’acquisto anche degli stipendi formalmente conformi ai CCNL, aggravato dal ritardo nei rinnovi contrattuali. La disparità salariale si è accentuata, con lavoratori che svolgono le stesse mansioni ma percepiscono remunerazioni molto diverse a seconda del contratto applicato. La Cassazione, di fronte a questa situazione, ha scelto di intervenire con forza per tutelare il diritto costituzionale alla retribuzione dignitosa, superando un sistema di contrattazione collettiva che in molti casi ha fallito la sua funzione protettiva.

Il potere attribuito ai giudici dalle sentenze è ampio e innovativo, ma deve essere esercitato con rigore e motivazioni dettagliate. Inoltre, i giudici possono discostarsi completamente da qualsiasi CCNL e utilizzare parametri alternativi per calcolare una retribuzione conforme ai principi costituzionali.

Tra questi parametri vi è la soglia di povertà elaborata dall’ISTAT, che fornisce un riferimento scientifico e oggettivo per definire le condizioni minime di vita dignitosa. Potrebbero essere considerati anche importi legati ad ammortizzatori sociali come la NASPI o la Cassa Integrazione Guadagni, pur con le necessarie cautele.

Questa possibilità di disapplicare parzialmente i contratti collettivi nazionali per adeguare lo stipendio costituisce uno strumento potentissimo, destinato a generare un aumento significativo del contenzioso in materia di lavoro nei prossimi anni.

L’orientamento della Cassazione si inserisce in un contesto europeo sempre più attento alla definizione di salari dignitosi. Le sentenze richiamano esplicitamente la Direttiva UE 2022/2041 sui salari minimi adeguati, che l’Italia non ha ancora recepito completamente. La direttiva amplia la nozione di sufficienza salariale, includendo la possibilità di accedere ad attività culturali, educative e sociali, elevando significativamente la soglia di dignità economica.

La portata delle sentenze della Cassazione si estende oltre il settore privato. I giudici hanno infatti chiarito che i principi affermati valgono anche per il Terzo Settore, regolamentato dal Decreto Legislativo n. 117/2017, e soprattutto per i lavori connessi ai contratti pubblici secondo il nuovo codice appalti (Decreto Legislativo n. 36/2023).

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