L’aumento di gennaio in realtà farà piangere le casse e i pensionati: così sembra quasi una beffa

A gennaio arriva la rivalutazione degli assegni, ma dietro l’apparente buona notizia si nasconde una realtà meno favorevole del previsto.

Ogni inizio d’anno porta con sé una notizia molto attesa da milioni di pensionati: l’aumento degli assegni. Anche nel 2026 scatterà la consueta rivalutazione delle pensioni, cioè l’adeguamento automatico degli importi all’inflazione. In teoria, dovrebbe essere un modo per tutelare il potere d’acquisto di chi vive di pensione. Ma, guardando i numeri, la realtà è più amara: l’aumento di gennaio rischia di sembrare una beffa sia per i pensionati che per le casse dello Stato.

Sulla carta, il meccanismo rimane invariato. La Legge di Bilancio 2026 non introduce tagli né blocchi: la rivalutazione si applicherà secondo le regole ordinarie previste dalla legge n. 448 del 1998. Tuttavia, il tasso di adeguamento — che sarà fissato ufficialmente solo a dicembre — si aggira intorno a +1,6% o +1,7%, un valore modesto rispetto all’aumento dei prezzi degli ultimi anni.

Tradotto in cifre, questo significa che per la maggior parte dei pensionati si parlerà di incrementi tra i 12 e i 40 euro lordi al mese. Una cifra che, dopo tasse e addizionali, rischia di ridursi a meno della metà. Insomma, un piccolo ritocco che lascia l’amaro in bocca.

Rivalutazione: come funziona davvero

Per capire cosa succederà a gennaio, bisogna partire da un concetto chiave: la perequazione. È il meccanismo che serve a mantenere stabile nel tempo il valore reale delle pensioni, adeguandole all’aumento del costo della vita. Ma non tutti ricevono lo stesso incremento: la rivalutazione si applica a scaglioni.

Aumento verità
La verità dietro l’aumento delle pensioni a gennaio – diritto

Chi percepisce una pensione fino a quattro volte il trattamento minimo (circa 2.413 euro lordi al mese) avrà l’aumento pieno, cioè del 100% del tasso fissato. Chi guadagna di più vedrà invece l’incremento ridotto: al 90% per la parte compresa tra 2.413 e 3.017 euro e al 75% per la quota superiore.

In pratica, chi ha una pensione da 1.000 euro lordi mensili riceverà circa 16–17 euro in più, mentre chi ne percepisce 2.000 avrà un aumento di circa 30–34 euro. Per i trattamenti più alti, gli incrementi si muovono tra 50 e 75 euro, ma con un impatto via via meno consistente sul totale.

E qui nasce il paradosso: da un lato, la misura “tutela” i pensionati più deboli; dall’altro, gli aumenti sono così contenuti che non compensano affatto il caro-vita accumulato negli ultimi anni.

Se per i pensionati l’effetto sarà quasi invisibile, per i conti pubblici l’impatto è tutt’altro che trascurabile. Con una spesa previdenziale che nel 2025 ha superato i 355 miliardi di euro, anche un piccolo incremento dell’1,6–1,7% significa almeno 5 miliardi di euro in più a carico dello Stato.

Una cifra enorme, che rischia di mettere ulteriormente sotto pressione i conti pubblici. È vero che una parte di queste somme torna indietro sotto forma di imposte, ma il saldo resta comunque negativo. In sostanza, lo Stato spende miliardi per un aumento che molti pensionati quasi non noteranno in busta paga.

Ecco perché si parla di una “beffa”: un provvedimento nato per difendere il potere d’acquisto, ma che finisce per pesare sul bilancio nazionale senza portare benefici. L’unico elemento ancora incerto è il dato ufficiale sull’inflazione 2025, che l’Istat comunicherà entro fine anno. Da quello dipenderà il tasso definitivo di rivalutazione. Ma, salvo sorprese, l’incremento resterà intorno all’1,6–1,7%.

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