Quale codice per i conflitti armati e per le situazioni d’emergenza?
18 agosto 2009
L’ultimo attentato contro i paracadutisti della Folgore, avvenuto l’ 8 agosto nel villaggio di Saydkhel, fa emergere per l’ennesima volta la realtà che il contingente italiano in Afghanistan è un obiettivo della guerriglia filo-talebana.
Anzi, gli accadimenti registrati fin ora ed il numero delle vittime, lasciano affermare che tutte le truppe Nato-Isaf, senza distinzione di nazionalità, sono nel mirino dei guerriglieri.
Questa evidenza sulla nostra missione in Afghanistan richiama necessarie risposte circa la distinzione tra pace e guerra.
Mentre da una parte l’intervento dell’Onu, condotto su invito del governo legittimo, esclude una missione di guerra nel senso convenzionale del termine, dall’altro la violenza della guerriglia e delle tensioni interne esclude le caratteristiche di una classica missione di peacekeeping.
E’ un’ipocrisia affermare il contrario.
Nei fatti, la missione in Afghanistan non ha mai cessato di far parte di una categoria intermedia di operazioni – other than wars – diverse dalla guerra, poiché caratterizzata dal vuoto di potere che alimenta una guerra civile, la cui violenza continua a crescere in maniera proporzionale alla forza delle milizie talebane; queste incrementano il loro armamento, reclutamento e consenso (in sintesi la loro forza) grazie al fiume di finanziamenti dei trafficanti di eroina alleati con la guerriglia per aggravare tensioni e ingovernabilità in vista delle prossime elezioni presidenziali (finanziamenti stimati in 70 milioni di dollari annui, pari al 90% del bilancio disponibile alla guerriglia talebana, la parte residua proviene dall’estero. Dal 2002 gli Usa si concentrano sull’Iraq e sui pericoli provenienti dallo scenario pakistano).
In questo contesto, la questione dei codici militari posta dal ministro La Russa, ossia l’applicazione di un adeguato quadro giuridico per i militari italiani, costituisce un’esigenza ormai indifferibile per la corretta condotta di operazioni difensive ed offensive in cui la forza militare debba essere impiegata attivamente sia per conseguire gli obiettivi di pacificazione che sono alla base della missione, che per difendersi da chi non vuole il raggiungimento degli scopi della missione internazionale.
Il nostro contingente dispiega in Afghanistan il meglio delle Forze armate, ci sono veterani di Somalia, Balcani, Iraq, Libano, in più casi si sarebbero potuti catturare i talebani che compiono gli attentati, ma non lo possono fare perché devono attendere le forze di sicurezza afghane, che spesso arrivano troppo tardi o addirittura non arrivano, spiegando che rischiano di cadere in un’imboscata, così gli italiani sono costretti a lasciarli andare e l’indomani quelli stessi torneranno ad aggredirli, corroborati da un’idea di debolezza dei militari che li hanno fronteggiati ed incoraggiando quanti intendono accrescere le file dell’insurrezione armata.
L’argomento principale, l’emergenza da analizzare e fronteggiare e proprio questa situazione di “insurrezione armata”.
In termini giuridici, l’insurrezione armata contro un governo legittimo è una guerra civile, questo tipo di guerra o è supportata da un’ideale di autodeterminazione territoriale o è volta a rovesciare un governo. In questi termini, la guerra civile diviene legittima – quindi degna di appoggio – quando è volta a rovesciare un governo insediatosi senza consenso degli abitanti del territorio, che recluta mercenari o che pratica metodi di apartheid, di genocidio o che non impedisce la schiavitù. Per il caso Afghanistan, una politica ed un’opinione pubblica che non vuole riconoscere l’esistenza di una situazione di guerra, nei fatti dimostra simpatia per gli insorti e, di conseguenza, la limitazione delle modalità tecniche (ossia giuridiche ed operative) per il contrasto della guerriglia procura grande profitto ai contrabbandieri di armi ed eroina.
La guerra civile, finché non viene internazionalizzata, cioè non viene riconosciuta alla stregua di un conflitto armato di secessione interna o di una guerra internazionale, non è un conflitto armato ma una situazione d’emergenza.
Operare in questo scenario senza adeguato supporto giuridico, diviene estremamente pericoloso e rischia di tramutarsi in una trappola, poiché l’obiettivo di raggiungere una stabilità minima è contrastato da un nemico aggressivo come Al Qaeda e i suoi spregiudicati alleati, in un territorio in cui le forze di sicurezza nazionale sono condizionate dall’inefficienza di un’amministrazione pubblica ormai in netto ritardo con la tabella di marcia verso la desiderata nation-building, se non in regressione, come dimostrano la dilagante corruzione ed una legislazione che fa l’occhietto ai fondamentalisti islamici, come dimostra da ultimo l’introduzione della legge sul diritto di famiglia sciita.
La situazione di guerra civile che devono fronteggiare oggi i militari dispiegati in Afghanistan comporta l’esigenza di impostare operazioni sempre più attinenti al quadro del peace-enforcement, le vecchie regole non bastano più ed anche quei politici italiani che vorrebbero concertare con gli alleati una decisione in merito al quadro normativo da adottare, dovrebbero sapere che oltre agli Stati Uniti, che hanno anche avviato l’incremento di forze del loro contingente, altri Paesi, come la Francia – con metodo realistico – hanno già provveduto ad adottare procedure, tattiche e regole d’ingaggio molto più aggressive. Inoltre un efficace coordinamento è possibile solo tra forze armate che operano con metodi omogenei tra di loro.
I codici militari, cioè il quadro giuridico con cui una nazione imposta la propria partecipazione ad un’alleanza e costituisce una prerogativa nazionale, denominata tecnicamente “diritto di bandiera” cioè non si tratta né di concertare tale diritto con gli alleati, né di contraddire la Costituzione, ma di leggere integralmente i tre capoversi dell’articolo 11 e prendere atto delle reali implicazioni che la presenza militare in Afghanistan comporta, quindi di applicare norme, come il codice penale di guerra (alias: codice dei conflitti armati), che hanno già trovato applicazione fino al 2006 per il medesimo teatro operativo, in attesa di una organica legislazione per i conflitti armati (si veda al riguardo l’art. 1 della Legge n. 6/2002).
Quello che stupisce nel contesto del dibattito politico è che i rappresentanti dell’opposizione si preoccupino del “ripudio della guerra” sancito dall’articolo 11 della nostra Costituzione, mentre nessuno espone preoccupazioni per l’incolumità dei civili e di eventuali prigionieri. Il nostro codice militare di pace, scritto a suo tempo prevalentemente per regolare la vita dei militari in caserma, non contiene alcuna norma in materia di trattamento dei prigionieri o di rapporti con la popolazione civile di un territorio percorso da un’insurrezione armata (e che nel caso specifico rischia di ridiventare un emirato talebano). Il codice penale militare di guerra, già emendato nel 2002 per la partecipazione all’operazione Endouring Freedom, presenta norme aggiornate e idonee per le circostanze di cattura di chi usa tattiche aggressive contro il nostro contingente e pone responsabilità chiare nei confronti di chi, da entrambe le parti, agisce proditoriamente o indiscriminatamente, travalica i limiti di umanità, eccede agli ordini, usa l’arbitrio o abusa del proprio potere. Quando sale la soglia della combattività per imporre la sicurezza, un elemento fondamentale è costituito dal dovere di salvaguardare i civili, infatti eccessivi danni collaterali alimenterebbero ancor più le fila della guerriglia. Basta guardare i rapporti sulle vittime, per ammettere che in un territorio infestato dalla guerriglia chi soffre e paga il prezzo più alto in termini di vite e conseguenze psicologiche, sono gli inermi. Questi sventurati non possono essere isolati dai talebani e dai loro connazionali più ostili senza iniziative destinate al consenso popolare, ma a tali azioni fanno seguito le minacce e gli attentati della controparte per dimostrare la propria maggior forza e controllo territoriale. Come difendere la popolazione ed il contingente militare senza le opportune regole? Cosa succede della credibilità e del consenso per un contingente che non può difendere e contrastare efficacemente le tattiche aggressive dell’avversario? Persino in Patria, in particolari condizioni, nella lotta alla criminalità organizzata o al terrorismo si sono adottate leggi speciali per incrementare la sicurezza dei cittadini, delle istituzioni e degli operatori di sicurezza; per questo motivo risulta difficile condividere le remore di chi non vuole sentire pronunciare la parola guerra in un determinato territorio quando questa di fatto esiste, è efficacemente alimentata dai signori locali ed è necessario incrementare la sicurezza operativa e l’efficacia del contrasto. Ormai da un decennio le Nazioni Unite, l’organismo che detiene il monitoraggio universale sulle situazioni i di crisi umanitaria, prevedono che in caso di operazioni militari diverse da guerre siano comunque applicate le Convenzioni di Ginevra e le altre norme internazionali relative ai conflitti armati, in particolare verso i civili, i prigionieri ed i feriti. Tuttavia, per quanto riguarda l’Italia, la coerente applicazione di tali trattati internazionali comporta attualmente la necessaria l’applicazione del codice penale militare di guerra, al fine di poter correttamente qualificare un’operazione di guerriglia da un atto proditorio ovvero da un atto terroristico o da un crimine di guerra e come tale renderne perseguibili gli autori anche da una giurisdizione nazionale quando la giurisdizione locale non voglia o non possa intervenire. Tale codice, per esplicito effetto della riforma del 2002 non è più destinato alla sola guerra convenzionale ma è adottabile in tutte le circostanze in cui le Forze armate italiane vengano impiegate in operazioni militari per il conseguimento della pace nell’ambito su richiesta di organizzazioni internazionali e nell’ambito di alleanze militari ( l’art. 165 della Legge n. 6/2002 recita testualmente: Applicazione della legge penale militare di guerra in relazione ai conflitti armati – “Le disposizioni del presente titolo si applicano in ogni caso di conflitto armato, indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra" ).
E’ questo quindi lo strumento legislativo da applicare in attesa che venga approntato un codice “ad hoc” per le missioni all’estero. Inoltre una legge per le missioni internazionali esiste da tempo, è il R.D. n. 1415 del 1938, che sarebbe prontamente applicabile con un’apposita opera di aggiornamento normativo ed adeguamento alle norme internazionali successivamente ratificate dall’Italia.
Come si vede, l’inapplicabilità del codice penale militare di guerra per mancanza dei presupposti di legge non è veritiera, mentre è impellente che oggi sia restituita ai militari italiani una base giuridica adeguata per operare contro la guerriglia e contribuire in modo paritetico ed efficace ai doveri verso l’alleanza, sminuendo il valore e la capacità dei nostri soldati.
La mancanza di regole adeguate per il nostro contingente lascia aperta la strada all’incertezza delle azioni mentre libera il campo a chi non appartiene ad istituzioni statali, questi deve rispondere alle sole regole di chi lo finanzia, come nel caso dei guerriglieri o delle compagnie private che operano nel campo della sicurezza e offrono servizi militari a contratto.
18 agosto 2009