La class action è uno strumento che in Italia stenta ancora a decollare, nonostante alcuni importanti casi che ne hanno dimostrato le potenzialità. Introdotta nel nostro ordinamento nel 2007, una ‘azione collettiva’ consente a un gruppo di cittadini che hanno subito un danno da un’azienda di agire collettivamente in giudizio, con indubbi vantaggi in termini di tempi e costi.
Uno dei primi casi di successo è stato quello intentato contro la compagnia telefonica Wind nel 2008: migliaia di utenti insoddisfatti ottennero un risarcimento per la cattiva qualità del servizio. Un segnale incoraggiante, anche se limitato ad un solo ambito.
Più di recente, una azione collettiva contro Volkswagen promossa dal Codacons a seguito dello scandalo sulle emissioni truccate del Dieselgate ha portato nel 2021 ad un maxi risarcimento di circa 3500 euro per ogni auto acquistata. Una vittoria per i consumatori contro un colosso industriale.
Tuttavia, molte class action non hanno avuto esiti positivi o non sono neanche state ammesse dai tribunali, come quelle contro banche e assicurazioni. Spesso le associazioni di consumatori che dovrebbero promuoverle hanno mezzi limitati. Inoltre, c’è ancora scarsa familiarità degli avvocati e dei giudici con questo istituto.
Senza dubbio, vi sono stati dei casi virtuosi che hanno segnato un passo avanti e questi precedenti dimostrano che, se adeguatamente utilizzata, la class action può rivelarsi uno strumento efficace per contrastare comportamenti scorretti di grandi realtà economiche.
Ciononostante, rimangono ancora vari ostacoli di natura culturale, economica e procedurale che impediscono alle azioni collettive di diffondersi capillarmente nel nostro Paese dove pesano la scarsa dimestichezza dei cittadini con tale istituto, le difficoltà delle associazioni di consumatori a sostenerne i costi e alcune chiusure in sede giudiziaria.
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