Il risarcimento dopo la assoluzione perché il fatto non sussiste

risarcimento dopo la assoluzione perché il fatto non sussiste

L’assoluzione perché il fatto non sussiste è una pronuncia giudiziaria emessa da un giudice penale quando viene accertato che il fatto oggetto del processo non costituisce reato o che non è stato commesso dal soggetto imputato e apre legittimamente la strada al risarcimento dopo la assoluzione perché il fatto non sussiste.

In pratica, quando un giudice emette un’assoluzione perché il fatto non sussiste, significa che non ci sono sufficienti prove per dimostrare che il reato contestato sia stato commesso dal soggetto imputato e pertanto, il giudice non può condannare il soggetto imputato perché non esiste un fatto costituente reato. Si veda a puro titolo d’esempio l’articolo: La condanna per spaccio di ‘erba’ di lieve entità.

L’assoluzione perché il fatto non sussiste può essere emessa in qualsiasi momento del processo penale, dal Giudice dell’udienza preliminare o dal Tribunale in sede di giudizio di primo grado o in appello. Quando viene emessa questa pronuncia, il soggetto imputato viene completamente assolto dalle accuse, senza dover subire alcuna pena o conseguenza penale rendendo possibile quindi il risarcimento dopo la assoluzione perché il fatto non sussiste.

È importante notare che l’assoluzione perché il fatto non sussiste è diversa dalla prescrizione del reato, che avviene quando è trascorso un certo periodo di tempo dopo la commissione del reato senza che sia stata esercitata l’azione penale. Nell’assoluzione perché il fatto non sussiste, invece, il giudice riconosce che il reato non è stato commesso o che non esistono prove sufficienti per dimostrarne la colpevolezza del soggetto imputato.

Quale risarcimento dopo la assoluzione perché il fatto non sussiste?

Una volta che l’imputato sia stato scagionato perché il fatto oggetto del processo non sussiste, potrà richiedere un risarcimento per gli eventuali danni subìti durante il processo penale.

In Italia, l’articolo 530 del Codice di procedura penale stabilisce infatti che il Giudice dell’udienza preliminare, il Giudice dell’appello o la Corte di Cassazione, a seconda della fase del processo in cui si è verificato il proscioglimento, possano disporre un risarcimento in favore dell’imputato una volta acclarato che l’esercizio del Pubblico ministero sia stato illegittimo o arbitrario.

Il risarcimento, in base alla legge italiana, può essere richiesto soltanto se l’imputato ha subìto una privazione della libertà personale o se sono stati commessi atti lesivi della sua onorabilità o della sua reputazione.

Il risarcimento può essere richiesto sia dal soggetto imputato che dal suo rappresentante legale entro 6 (sei) mesi dalla data in cui è stata emessa la sentenza di proscioglimento definitiva. La richiesta di risarcimento deve essere presentata al Giudice che ha emesso la sentenza di proscioglimento, il quale provvederà ad esaminare la richiesta e, se del caso, a disporre il risarcimento.

Il risarcimento può comprendere anche le spese sostenute dall’imputato per la sua difesa durante il processo, come gli onorari dell’avvocato o le spese per le perizie tecniche. Tuttavia, il risarcimento non può essere richiesto se l’imputato è stato condannato in una precedente fase del processo e poi assolto in appello o in Cassazione, in quanto la sua privazione della libertà personale sarebbe stata giustificata dalla condanna iniziale.

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