Lavoro subordinato e Associazione in partecipazione

La riconducibilità del rapporto di lavoro al contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili esige un’indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua anche delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che il primo implica l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa che è configurabile pure laddove le parti abbiano escluso la partecipazione alle perdite, poiché in tal caso l’eventuale assenza di utili determina l’assenza di compensi, necessariamente correlati all’andamento economico dell’impresa.

I Giudici tornano a pronunciarsi sull’annosa distinzione e (in)compatibilità tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di associazione in partecipazione, il cui quadro normativo di riferimento è stato sensibilmente novato dalla riforma del Jobs Act. 

In seguito a detta riforma, tra gli altri, è stato modificato il testo dell’art. 2549 del codice civile il quale, nella sua formulazione attuale, stabilisce che “con il contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto e nel caso in cui l’associato sia una persona fisica l’apporto di cui al primo comma non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro”.

Dunque, il Legislatore ha inteso marcare la differenziazione tra i due regimi contrattuali onde contrastare i fenomeni elusivi di improprio inquadramento rispetto a quelli che sono rapporti di lavoro subordinato a tutti gli effetti.

Venendo alla vicenda in commento, questa è frutto della contrapposizione tra le ragioni di una società di capitali (precisamente, una S.p.A.) contro l’INPS e l’INAIL, in tema di omissioni contributive discendenti dall’individuazione (da parte dei predetti Istituti) di rapporti di lavoro “fittizi”.

Infatti, in seguito ad un accertamento ispettivo, la società si è vista contestare la natura fittizia dei rapporti lavorativi con alcuni venditori, che erano stati costituiti in forma di associazione in partecipazione.

Sono state di talché rilevate le relative omissioni contributive (nei confronti dei predetti Istituti) in relazione a tali rapporti di lavoro considerati “fittizi”.

Nei giudizi di merito, è stata respinta l’opposizione proposta dalla società avverso alcune cartelle esattoriali relative alle “omissioni contributive per crediti INPS e INAIL”.

Più di preciso, è stato ritenuto che la pattuizione contrattuale secondo cui i lavoratori associati avrebbero partecipato ad una quota di utili (in misura variabile), con corresponsione di un fisso mensile a titolo di acconto ed espressa esclusione di partecipazione alle perdite, “costituirebbe smentita per tabulas della ricorrenza della fattispecie legale dell’associazione in partecipazione”.

In sostanza, a parer dei Giudici di merito, la “genuinità” dell’associazione in partecipazione sarebbe stata minata già (e solo) per il fatto che le parti avessero pattuito l’esclusione di partecipazione alle perdite per gli associati (venditori) e, sulla scorta di ciò, non ha condotto un’ulteriore valutazione sulle concrete modalità di svolgimento dei rapporti di lavoro in questione.

La società ha quindi adito la Corte di Cassazione deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 2549, 2553 e 2554 del codice civile (norme codicistiche in tema di associazione in partecipazione).

Il citato art. 2553 afferma infatti che “salvo patto contrario, l’associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili, ma le perdite che colpiscono l’associato non possono superare il valore del suo apporto”.

Quindi, la norma sembrerebbe consentire un’apertura alla libertà delle parti in tema di regolamentazione di partecipazione a utili e perdite (e relativa misura).

La Cassazione ha accolto il ricorso, affermando il principio per cui “la riconducibilità del rapporto di lavoro al contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili esige un’indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua anche delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che il primo implica l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa che è configurabile pure laddove le parti abbiano escluso la partecipazione alle perdite, poiché in tal caso l’eventuale assenza di utili determina l’assenza di compensi, necessariamente correlati all’andamento economico dell’impresa”.

Ricapitolando, dunque, nei gradi di merito (distanti dall’accertamento in concreto di cui alla massima di legittimità), si è (erroneamente) ricondotto alla sola previsione di una mancata partecipazione alle perdite sia (i) l’insussistenza degli elementi distintivi dell’associazione in partecipazione, sia (ii) la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra associati e società ricorrente.

Ciò, a parer della Cassazione “non può in alcun modo predicarsi come conseguenza presunta iuris et de iure di una collaborazione in ipotesi non sussumibile nel paradigma dell’associazione in partecipazione”, in mancanza di un accertamento in concreto dei presupposti per l’operatività dell’art. 2094 del codice civile (prestatore di lavoro subordinato).

In effetti, le conclusioni cui sono giunti i Giudici nella sentenza in commento si pongono in stretta relazione sia (i) con l’orientamento “nomofilattico” che, ormai, va sempre più consolidandosi sia (ii) con un altro recente arresto della Corte di Cassazione.

Infatti, nonostante i fatti sottesi alla causa fossero sensibilmente diversi, con sentenza n. 26273/2020, la Cassazione ha evidenziato il medesimo (suesposto) principio di diritto.

In tale ultimo caso, però, la Cassazione ha qualificato come subordinato un rapporto formalmente contrattualizzato in regime di associazione in partecipazione essenzialmente sul rilievo che alle lavoratrici era stato assicurato un compenso garantito mensile, sostanzialmente corrispondente alla retribuzione fissata dalla contrattazione collettiva per il profilo professionale corrispondente alle mansioni di fatto svolte – commesse di negozio -, senza partecipazione alle perdite”.

Ebbene, tale ultima sentenza è di grande interesse in quanto offre interessanti spunti proprio sui tratti differenziali tra rapporto di lavoro subordinato (con partecipazione agli utili) e il contratto di associazione in partecipazione.

Tratto distintivo della seconda figura contrattuale è infatti il “sinallagma” costituito dalla partecipazione al rischio d’impresa da parte dell’associato.

Vero è che, stando a precedenti giurisprudenziali, anche l’esclusione della partecipazione alle perdite dell’impresa sarebbe astrattamente compatibile con un contratto di associazione in partecipazione.

In proposito, però, la Cassazione ha osservato che da tale giurisprudenza si desume unicamente che la divisione delle perdite non viene considerato dalla legge quale elemento imprescindibile per la configurazione della fattispecie, dal momento che l’art. 2553 c.c., pur prevedendola in via generale, ammette che le parti possano derogarvi, limitando la divisione ai soli utili. 

Tuttavia, “ciò non fa venir meno il carattere aleatorio del contratto, dal momento che, in caso di mancanza di utili, l’apporto lavorativo dell’associato è destinato a rimanere senza compenso”.

Pertanto, ne deriva che l’associato che lavori in un’impresa con risultati negativi è comunque soggetto (in senso lato) ad un rischio economico, pure laddove le parti abbiano escluso la partecipazione alle perdite; infatti, l’assenza di utili per l’impresa determinerebbe l’assenza di compensi, dovendo questi ultimi necessariamente essere correlati all’andamento economico aziendale.

Invece, come evidenziato nei gradi di merito relativi a tale procedimento, era stato garantito alle lavoratrici sia (i) un compenso mensile (peraltro, come detto, corrispondente alla retribuzione fissata dalla contrattazione collettiva), sia (ii) l’esclusione di partecipazione alle perdite. 

Ne deriva, quindi, l’assenza di qualsivoglia forma partecipativa al rischio di impresa e, conseguentemente, l’assenza di uno dei requisiti che indefettibilmente devono ricorrere per la configurabilità della fattispecie negoziale di associazione in partecipazione.

Sotto ulteriore profilo, è stato pure accertato che non vi era stato un significativo coinvolgimento, nemmeno conoscitivo, nella gestione economica dell’impresa, dunque, complessivamente, in ragione delle modalità di esecuzione della prestazione, l’apporto delle lavoratrici corrispondeva integralmente ad una prestazione di commessa di negozio.

Interessante anche tale ultimo spunto valutativo tenuto in considerazione dai Giudici nella loro analisi per la corretta qualificazione della fattispecie negoziale sottostante ai rapporti tra le parti.

In buona sostanza, se è vero che un associato deve partecipare effettivamente al rischio d’impresa, è anche vero che tale partecipazione non si enuclea nella sola esecuzione di compiti bensì anche nel coinvolgimento gestorio nell’impresa.

Corte di Cassazione, Sezione L Civile, Ordinanza 2 marzo 2022, n. 6893

A cura degli Avv.ti Fabrizio Morelli (partner) e Davide Maria Testa c/o DLA Piper Italia – Esperti in diritto del lavoro, relazioni industriali e riorganizzazioni aziendali

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